Fu una notte buia, più buia del solito. Le stelle sembravano coperte da un velo leggerissimo, le intravedevo ancora da una piccola fessura della finestra chiusa, ma non splendevano come al solito, sembravano opache. Forse ero solo io che percepivo le cose in maniera diversa, perché non sapevo cosa aspettarmi, non sapevo come sarebbe avvenuto, ma sapevo che quella notte non era come le altre, non poteva esserlo. Seguimmo le istruzioni alla lettera. Ogni cosa era stata preparata e poi eseguita nel dettaglio, perché solo così, ci fu detto, io e tanti altri come me avremmo potuto vedere l’alba del giorno dopo.
Sono il primogenito di cinque figli, nato dalla tribù di Levi, figlio di Eleazar, figlio di Aronne. La mia casa era al centro del villaggio, nella terra di Goshen, dataci dal Faraone in onore di Giuseppe che guidò l’Egitto con la mano potente del nostro Dio. Da allora questa terra che era divenuta la nostra speranza di poterci stabilire, si rivelò invece per noi una prigione: eravamo schiavi e lavoravamo fino allo stremo delle forze per costruire una città. Eravamo schiavi e vivevamo oppressi, sotto la tirannia del Faraone d’Egitto. Egli ci opprimeva, ci denigrava, ci umiliava alla condizione delle bestie delle terra. Quando avevamo un po’ di forza, ci comandava con la verga; quando alzavamo gli occhi al cielo, ci spingeva con la faccia nel fango. Il fango ci ricopriva, sembrava una seconda veste. Anche quando la sera cercavo di rimuoverlo, sembrava essere ancora lì, non c’era sapone che funzionasse e non importa quanto energicamente io strofinassi. Sembrava non finire mai. Eppure la forza di andare avanti in questa condizione non ci è mai mancata, il pane sebbene scarso non è mai venuto meno e così la discendenza dei nostri padri si è accresciuta, anziché diminuita.
Io attendevo quella notte, chiuso in casa, secondo le istruzioni di mio zio Mosé che aveva dato ad Aronne, mio nonno. Avvenne tutto così: ogni famiglia prese un agnello o un capretto secondo il numero dei membri della famiglia, lo sacrificò e raccolse tutto il sangue in un bacino. Poi al calar del giorno mio padre intinse un ramo d’issopo nel bacino e con il sangue dell’agnello, marcò gli stipiti delle porte. Io osservavo ogni cosa, chiedendomi nel mio cuore, cosa significasse tutto questo…in che modo il sangue di un agnello, giovane e senza macchia avrebbe risparmiato la mia vita quella notte?
Mentre mio padre dipingeva la nostra porta, nei suoi occhi leggevo una dignità nuova, la determinazione e la speranza di chi vede finalmente davanti a sé una strada, la fine della schiavitù. Mi guardavo intorno e leggevo in ogni altro volto familiare la stessa dignità, la stessa speranza. Forse questo era il vero volto della fede!
Ognuno si affrettava a seguire le istruzioni, senza dubbio alcuno che queste fossero state legge dettata dal Dio dei nostri padri.
Il nostro Dio, il Dio dei nostri padri, è diverso da ogni altro dio di questa terra. È un Dio solo, invisibile, ma potente più di ogni altro: il suo nome è Io Sono. Ce lo ha detto zio Mosè, che parla con Lui continuamente. Egli non ha volto e non vuole essere scolpito né vuole essere adorato come gli altri adorano i loro dei; Egli è il creatore di tutte le cose, ogni elemento della Terra risponde a Lui: il sole, i campi, le acque, il cielo intero e tutte le bestie della terra! Io l’ho visto con i miei occhi!
Tutti gli altri dei che adorano gli Egiziani provarono a riprodurre i Suoi prodigi, ma nessuno di essi vi riuscì, non come il Dio dei nostri padri: dapprima le acque del grande fiume divennero tinte di sangue, ma a noi non mancò l’acqua pulita; poi arrivarono le rane a centinaia di migliaia; dopo le rane fu la volta delle zanzare; poi arrivarono le mosche velenose e con esse la speranza che il Faraone cedesse, ma il suo cuore s’inasprì ancora di più contro di noi e contro il nostro Dio. Poi cominciarono a perire le bestie, e terribili piaghe apparvero sulla pelle degli egiziani e dei loro animali. Dovevo girare la faccia per non guardare i loro volti, per non vedere quanto soffrivano! Ma a noi la pestilenza nemmeno ci sfiorò. Dopo di essa, la spaventosa pioggia di fuoco che cadeva dal cielo! Ricordo bene quella notte, non riuscii a dormire, ero terrorizzato! Sentivo il fuoco di grandine cadere pesante dal cielo e abbattersi furioso sulla terra. Sembrava che Dio stesse tendendo l’arco e tirando tutte le stelle sulla terra come frecce infuocate; la notte divenne chiara come il giorno! Poi arrivarono le cavallette che divorarono ogni cosa portando tutto l’Egitto alla fame. Ma le loro fauci non si accostarono al nostro pane. Infine arrivarono le tenebre, così buie e profonde come un pozzo senza fine, erano così fitte che potevi toccarle con le dita!
E ora, avevamo quella notte davanti a noi: il nonno diceva che sarebbe stata una notte di pianto inconsolabile! Consumammo l’agnello cotto sul fuoco, senza spezzare alcuna delle sue ossa; madre preparò il pane azzimo, rigorosamente senza lievito, e le erbette amare che mi fanno strizzare gli occhi quando le mangio, ma hanno il sapore delle ore strette e lente del duro lavoro sotto al sole rovente del cielo d’Egitto. Lo mangiammo in fretta e tutti vestiti come per uscire, con i calzari ai piedi. Queste furono le istruzioni e noi osservammo ogni cosa come ci fu detta.
Così mentre guardavo quelle stelle opache dalla piccola fessura della finestra, mi sentivo al sicuro, come se ci fosse stato un pericolo che correva per le strade, ma io ne fossi immune. Qualcosa di terribile che si nascondeva in una brezza, la quale sembrava innocua ma toglieva il fiato, rubava il respiro di chi la esalava. Era già mezzanotte in quella notte silenziosa, dove nemmeno un cane si sentiva abbaiare. La porta tremò solo per un secondo, come se quella brezza l’avesse raggiunta e si fosse fermata a guardare. E senza mai entrare, la brezza di terrore passò oltre, lontano da noi, dal mio respiro che si era arrestato, ma solo per un attimo, solo fino a quando anch’essa aveva ripreso il suo cammino. Non sarebbe tornata più. Così, ora la immaginavo proseguire, porta dopo porta, passando al vaglio ogni casa, scrutando ogni stipite, lasciando il respiro a chi per un attimo lo ha trattenuto, come me, oppure sottraendolo per sempre.
Alle prime luci del mattino, mi svegliai di soprassalto. Non mi ero nemmeno accorto di essermi addormentato. Le prime voci strazianti si levarono sopra al giorno, proprio come fa la luce quando si propaga piano piano all’alba su ogni cosa: prima illumina una parte sola, poi inesorabile avanza e inonda di luce ogni cosa, scoprendo tutto quello che la notte aveva tenuto nascosto.
Allo stesso modo nell’arco di pochi minuti quelle prime voci solitarie furono unite a tante altre in un grido raggelante che si innalzò in tutto l’Egitto. Mi coprii le orecchie per non sentirlo più, ma era così forte che nulla poteva soffocarlo, né consolarlo.
Fu allora che sentimmo bussare alla porta. La voce di mio nonno, concitata, fervida di emozione ci disse: È ora! Così, i calzari già ai piedi, aprimmo la porta per l’ultima volta e per l’ultima volta la chiudemmo alle nostre spalle. Non per andare schiavi a scavare nella polvere, non per sporcarci ancora una volta di fango, non per ricevere la frusta come compenso, né per raccogliere la paglia tra i campi, non per vederci il pane negato, né per essere presi in giro per la nostra nudità. No! Questa volta era il nostro Liberatore a chiamarci, spianandoci una Via e ricoprendoci di tutte le ricchezze d’Egitto, che nessuno aveva mai visto! Gli Egiziani infatti ci riempivano le mani di ogni bene prezioso, oro, argento, gemme e brillanti di ogni sorta e dimensione. Ci invitavano ad andarcene ma questa volta senza violenza. E finalmente quel fango che era impossibile lavare via adesso diventava polvere che un vento gentile proveniente dall’alto soffiava via dalle nostre mani, dalle nostre teste, dai fianchi e dai calzari, dalle nostre vesti! A quel punto, vigorosi nella nostra marcia verso la terra promessa, innalzammo un canto, più forte del grido del pianto e della disperazione. Un canto di gioia e lode per Colui che aveva fatto delle nostre tenebre la più folgorante luce!
Ashira l’Adonai ki gaoh ga-ha! Cantate all’Eterno perché si è grandemente esaltato!
Così lasciammo la schiavitù e ci incamminammo verso la libertà.
Ora […] essendo stati liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi avete per vostro frutto la santificazione e per fine la vita eterna.
Togliete via dunque il vecchio lievito affinché siate una nuova pasta, come ben siete senza lievito, la nostra pasqua infatti, cioè Cristo, è stata immolata per noi.
Romani 6:22; 1 Corinzi 5:7