Rivalutare il ruolo della testimonianza personale per l’evangelizzazione e la crescita personale.
Nella cultura evangelica contemporanea, l’uso della testimonianza personale nell’evangelizzazione è diventato così comune che pochi si soffermano a considerare le sue implicazioni teologiche e pratiche. Si dà quasi per scontato che per comunicare efficacemente il Vangelo, si debba raccontare la propria storia, come si era soliti essere, come si è incontrato Cristo e come è cambiato tutto. Ciò accade più spesso durante l’evangelizzazione individuale o durante eventi in chiesa, in cui i non credenti di solito vengono su invito di amici praticanti; meno nell’evangelizzazione di strada.
Tuttavia, questo approccio narrativo fa spesso appello alle emozioni e alla trasformazione soggettiva e, sebbene possa sembrare convincente in superficie, comporta un rischio significativo: può oscurare il Vangelo stesso e indurre sia l’ascoltatore sia chi parla a pensare che la salvezza riguardi principalmente l’esperienza personale piuttosto che la verità oggettiva di Cristo crocifisso e risorto.
Il vangelo non è una storia su di me , né è autenticato da ciò che mi è accaduto. È la proclamazione di ciò che Dio ha fatto in Cristo per i peccatori: che Cristo è morto per i nostri peccati, è stato sepolto ed è risorto il terzo giorno. La chiamata biblica è credere che Gesù è esattamente questo Cristo, non sentirsi in un certo modo, non vedere un certo cambiamento, non raccontare un momento particolare. Quando l’esperienza personale è al centro della scena, quando la testimonianza diventa la sostanza piuttosto che servire il vangelo, la porta è aperta alla confusione, all’orgoglio e a mal riposta sicurezza.
Ho incontrato numerosi credenti che, anche dopo molti decenni nella fede, definiscono ancora la loro vita cristiana in base a ciò che non fanno più o a quel singolo momento di conversione di molti anni fa. Raccontano, a volte con un’aria inconsapevole di superiorità spirituale, di come bevevano o imprecavano o imbrogliavano o altro, ma Dio li ha cambiati. Questo è, ovviamente, qualcosa per cui essere grati. Ma non si può fare a meno di notare che mentre sono orgogliosi di ciò che si sono lasciati alle spalle, sono spesso ciechi ai continue manifestazioni di scortesia, arroganza, amarezza, impazienza o mancanza di amore, cose che la Scrittura condanna allo stesso modo. La loro testimonianza è diventata una specie di scudo spirituale, una storia che definisce la loro identità e li isola da ulteriore crescita. Il messaggio diventa: “Guarda quanto sono cambiato”, piuttosto che “Guarda cosa ha fatto Cristo”.
Ciò non è da sottovalutare. Sottilmente, crea un nuovo standard, dove le persone giudicano la realtà della loro salvezza in base al fatto che la loro esperienza rispecchi o meno quella degli altri. Ho sentito quello che ha sentito lui? Sono cambiato come è cambiata lei? Se non è così, sono stato davvero salvato? In questo modo, la certezza non è più ancorata alle promesse immutabili di Dio in Cristo, ma alle sabbie mobili della memoria e dell’emozione. La fede diventa introspezione. L’evangelizzazione diventa autobiografia. E il glorioso vangelo della grazia diventa una storia di auto-miglioramento personalizzata.
Biblicamente, troviamo uno schema molto diverso. Gli apostoli non incentrarono la loro predicazione sulle loro esperienze, ma sui fatti della morte e della resurrezione di Cristo. Pietro a Pentecoste non disse: “Lasciate che vi racconti la mia storia”. Proclamò Gesù come Signore e Cristo e invitò la folla a credere. Paolo, quando si rivolse ai filosofi di Atene, non fece appello a come la sua vita era cambiata, ma alla resurrezione dei morti e al giudizio imminente. Anche nei resoconti in cui Paolo condivide la sua testimonianza, come davanti ad Agrippa, essa non viene mai presentata come prova della verità del Vangelo, ma piuttosto come sfondo alla sua chiamata, con il messaggio centrale che rimane invariato: credere nel Signore Gesù Cristo.
Quando eleviamo la testimonianza personale, non solo oscuriamo il Vangelo; rischiamo anche di alimentare la carne. La natura umana ama una storia in cui siamo i vincitori, i trasformati, coloro che hanno viaggiato dall’oscurità alla luce. C’è un sottile orgoglio nel raccontare la natura drammatica della nostra conversione o la profondità della nostra peccaminosità, orgoglio che trova conforto non in Cristo, ma da quanto Cristo ha dovuto salvarci. Ma la salvezza non riguarda il grado di trasformazione esterna, né lo spettacolo della nostra redenzione. Riguarda la sufficienza dell’opera espiatoria di Cristo e l’affidabilità della promessa di Dio di salvare tutti coloro che credono nel Suo Figlio.
Un’ulteriore conseguenza di questa eccessiva enfasi sulla testimonianza è l’implicita aspettativa che una testimonianza “valida” o “potente” debba essere drammatica. Più il passato è sordido, più la narrazione sembra avvincente. Di conseguenza, coloro che sono cresciuti in famiglie cristiane, che non si sono mai spinti troppo in peccati visibili o scandalosi, a volte si sentono come se la loro fede fosse in qualche modo di seconda categoria o incompleta. Non hanno una storia sbalorditiva da raccontare, nessuna conversione in cella di prigione, nessuna guarigione miracolosa, nessun momento di crollo e rialzo. Eppure questa è una tragica distorsione della verità biblica. La grazia di Dio non è meno gloriosa in questi casi. Il giovane uomo o donna che confida in Cristo in giovane età, senza il bagaglio di un passato prodigo, testimonia altrettanto chiaramente, se non di più, la fedeltà di Dio e la sufficienza del Vangelo. La loro fede non è meno autentica perché manca di dramma; è fondata sullo stesso Cristo, poggia sulla stessa promessa ed eredita la stessa vita eterna. Misurare la potenza del Vangelo in base all’aspetto estremo della storia precedente alla conversione significa fraintendere la natura stessa della grazia.
Faremmo bene a relegare la testimonianza personale al suo posto appropriato, ai margini. Una testimonianza può illustrare il vangelo, ma non deve mai sostituirlo o definirlo. Può adornare la verità, ma non deve mai essere la base su cui qualcuno è invitato a credere. La salvezza viene attraverso la fede nella persona di Cristo, non nell’esperienza di qualcun altro di Lui. Il vangelo è “il potere di Dio per la salvezza di chiunque crede”, non di chiunque senta o ricordi o cambi radicalmente. Il nostro messaggio deve essere: credi nel Signore Gesù Cristo e sarai salvato, non “credi e vedi se/che ti accadrà qualcosa di drammatico”.
Se vogliamo essere fedeli amministratori del vangelo, dobbiamo resistere alla tentazione di predicare noi stessi, anche sotto le mentite spoglie della testimonianza. La nostra chiamata è predicare Cristo Gesù il Signore, e noi stessi come servitori per amor Suo. Lasciamo che la storia sia Sua. Lasciamo che la sicurezza non riposi nella nostra trasformazione, ma in Colui che ha detto:
“Chi crede in me ha vita eterna.”